“Chi è che sa di che siamo capaci tutti?”.
Mi ronza in testa l’attacco di un brano del Consorzio Suonatori Indipendenti mentre cerco la penna giusta con cui tracciare segni e linee di questo piccolo racconto.
Che racconto?
Beh, chiedetelo a Loredana. È lei che – fin dall’inizio – ci ha voluto al suo fianco in questa parabola di pani e grani. È lei che ci ha detto: «Amici cari, non vi sembra sia giunto il momento giusto per raccontare la vostra storia?».
Voi ci leggete una domanda, vero? Che ingenui, era un ordine, un diktat imposto direttamente nientepopodimeno che dalla grande sacerdotessa della tribù dei PiantaGrani. Fatene tesoro: meglio un fulmine in pieno petto che tradire una consegna di Loredana.
Così mi sono fatto avanti io. A dirla tutta, da tempo aspettavo l’occasione giusta per prendere parte attivamente a questo grande cunto de li cunti di personaggi e di imprese capaci e meritevoli. E, dunque, eccomi qua, ci siamo, possiamo partire.
Ah, no. Un’ultima notarella a margine. Avevo chiesto a Loredana se mi era concesso – come piccola eccezione – di svincolarmi dalla canonica triade hegeliana (vale a dire: il seme, le intemperie, il raccolto) che regge e sostanzia la dialettica narrativa delle Lune Crescenti. C’è davvero bisogno di dirvi come sia andata a finire?
Il seme, l’origine della storia
«Salve, buongiorno.»
«Buongiorno a lei, mi dica pure.»
«Guardi, sono piuttosto desolato, mi sento inerme, svuotato, spento.»
«Capisco.»
«Ecco, vorrei un sacchetto di semi.»
«Certo.»
«Vorrei seminare.»
«Mi sembra un’ottima idea. E io sono qui per questo.»
«Magari funziona.»
«Glielo auguro. Cosa vuole seminare?»
«Mmh, nello specifico, proprio non saprei.»
«Come, non lo sa?»
«Ce l’ha un sacchetto di semi di speranza?»
Un locale di due stanze, e quindici persone che devono spartirsi l’affitto e le spese. Tutto qui. Niente progetti, niente pretese, nessuna prospettiva. Solo, alla base di tutto, la necessità di trovare riparo alla tentacolare morsa del nulla che strangola un piccolo centro come Contursi Terme.
A contare quindici persone, non c’arrivammo mai. Ciò che arrivò fin da subito fu invece l’ebbrezza di avere un punto di ritrovo, la gioia della socialità, l’entusiasmo di accorciarsi le maniche per acconciare alla meglio quelle due stanze, l’adrenalinica smania di moltiplicare sforzi ed energie per costruire – di lì a poco – un nostro festival, l’infuocata rabbia di smuovere una valle intera per bloccare la costruzione di un inceneritore.
Non vi ammorberò di date e mappe cronologiche – sono il primo a non poterle soffrire. Certo è che in poco più di cinque anni quei semi di speranza, gettati un po’ alla rinfusa, hanno attecchito e germogliato, generando una pianta solida, ferma, robusta, rigogliosa di fiori e frutti preziosi.
Le intemperie, le prove
La rassegnazione è un’arte spicciola, promiscua, virale, un’anti-techne popolare e popolata. Per di più, molto spesso, accidiosa e vendicativa.
Se un rubinetto perde, lascialo perdere.
Non ti muovere, resta fermo, perché ti affanni? Guardati, sei ridicolo, inopportuno, che pallone, sgonfiati, non darti arie, non prenderai mai il volo, scendi adesso, ti conviene, farà meno male. Ah, ma guarda tu che capoccione! Insisti? A che pro? Che ci ricavi? C’è qualcosa di losco, dietro? Chi vi finanzia? Volete buttarvi in politica? Comunque sia, dice che è un fracasso continuo, non c’è più pace, rumori e schiamazzi a ogni ora del giorno e della notte. Qua risulta che state dando fastidio. Vi tocca pagare una bella multa, rifare da capo carte e perizie. Converrai, a questo punto, che è meglio chiudere e trovarsi un lavoro vero. Come sarebbe a dire che vi hanno aiutato a pagare la multa? Hanno raccolto spontaneamente più di duemila euro per poter dar seguito a questa pagliacciata? Santo cielo, allora non c’è speranza, non c’è religione, non c’è modo di farvi rinsavire, non vi entrerà mai in testa che se un rubinetto perde, e perde, e continua ancora imperterrito a perdere e a disperdere il soffio vitale che anima lo spirito di una piccola comunità, voi dovete solo e soltanto lasciarlo perdere.
Il raccolto, i risultati
“Chi è che sa di che siamo capaci tutti?”, canticchiavo accingendomi a scrivere questo pezzo.
Mi accorgo, riflettendoci, che c’è qualcosa che va oltre la mia adolescenziale abitudine di stendere un tappeto sonoro a far da colonna sonora per ogni scena della mia vita.
“Chi è che sa di che siamo capaci tutti?” è l’asse dialettico attorno a cui riavvolgere l’intera traversata spirituale di questo variopinto, folle e lucido battello sociale e culturale chiamato Bandiera Bianca.
Una rotta dello spirito nei marosi abissi del nulla. Un testardo incedere nonostante tutto e nonostante tutti. Un ardito guerreggiare contro tutto e tutti. Un religioso accogliere tutto, tutti.
Nessuna pretesa – meglio specificarlo – di salvare il mondo. Men che meno, la presunzione di elevarsi al di sopra di qualcuno o qualcosa. La storia di Bandiera Bianca è semplicemente la storia del dispiegarsi di una possibilità “altra”, di una voce “altra”, di una weltanschauung – pardon, volevo dire: visione del mondo, della vita e dell’uomo – “altra”. Né migliore, né peggiore: semplicemente “altra”. Pane al pane, e vino al vino: prima, a Contursi e nei paesi qui intorno, potevi scegliere se andartene al bar, fare una bella passeggiata, o metterti in macchina per arrivare in città; adesso, se ne hai voglia, hai un’opzione in più, vieni al circolo Bandiera Bianca e partecipi alle mirabolanti avventure dell’associazione.
Insomma, checché vi racconti il nome, Bandiera Bianca è una forma di resistenza culturalmente armata contro il politeismo della resa, dalla rassegnazione, della tristezza. D’altro canto, chi l’ha detto che la provincia dell’impero globalizzato non possa intercettare quanto di più valido si costruisce, realizza e racconta nel resto del pianeta? Per quale profondo motivo non può essere proprio un paesino di provincia il più devastante epicentro di un rivoluzionario terremoto culturale e sociale?
I concerti, il teatro, i libri, il cinema, i dibattiti, gli incontri, le riunioni, le lotte, i corsi, le mostre, i concorsi, il festival, e ancora… No, avevo promesso di non tediarvi con liste ed elenchi. Voglio tener fede alla parola data. Voi, allora, prestate fede a me se vi dico che – seppur non dovesse entusiasmarvi tutto l’ambardan di iniziative ed eventi che riempiono il voluminoso curriculum di Bandiera Bianca – la storia dell’associazione di cui faccio parte è la più genuina e semplice dimostrazione di come, seminando speranza, potrai godere di raccolti la cui abbondanza sbalordirà te per primo.
D’altronde, “chi è che sa di che siamo capaci tutti?”
Testo di Angelo Cariello
Foto di Valentina Gaudiosi e Simone Valitutto
Bel pezzo Cariè!
Lunga vita al Bandiera Bianca,
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